utopia e neotenia




Mi scuso per la presunzione. La mia è un'indicazione pedagogica: per affrontare il tema dell'utopia dobbiamo farci carico dello stato neotenico di cui siamo rappresentanti e del rapporto con il presente che ne è primo riscontro.

Qualche settimana fa Julia Trolp mi ha carinamente invitato a rispondere ad una intervista che verrà pubblicata in occasione della mostra "let's go outside" a cura di Daniele Capra presso "Superstudio Più".
Credo che Julia mi abbia invitato memore di alcuni progetti che ho portato avanti in questi anni, uno per tutti il premio alla discussione ontologica delle arti, mascherato sotto la dicitura di "premio nazionale alle passioni" che l'anno scorso ha chiuso la prima edizione.

Per giungere al dunque: il tema dell'utopia è interessante se inquadrato in una dimensione proiettiva di origine moderna unitamente al costante lavoro in favore della vita e a scapito necessariamente della morte che la religione cattolica porta avanti da secoli. Da quel momento in poi, cioè dal momento in cui la vita entra nella scena del presente come soggetto in grado di avere una sua parte e una sua ragione e non solo come dato di fatto, l'utopia diventa qualcosa di concreto e raggiungibile. L'utopia inizia a gettare una luce sul mondo tanto da imprimerne la rappresentazione e diventare una sorta di stampo per il presente. Il peccato originario è neotenico, cioè indossa le vesti della storia.


Qui di seguito l'intervista con Julia, sempre affascinante perché maledettamente testarda.


All’inizio della tua personale avventura, cosa avevi in mente? Che visione avevi?
Penso che all'inizio, ma proprio all'inizio si trattasse di una cantina. Era l'interrato di una vecchia scuola che alcuni amici avevano occupato alla periferia di Torino. Io intendevo occuparla a mia volta per costruire una cappella e officiare. Mi ritirai in tempo e la cappella non la feci mai.
Per dar corso a desideri del mio spirito mi affidai al già testato “rito di liberazione dei nani da giardino”. Lo officiai con alcuni amici, dopo una lunga notte di balli, una mattina all'alba, sul Musiné.
Guidati da un druido scalammo i pendii della montagna. Eravamo una ventina, alcuni con tatuaggi e piercing, tutti con un nano sulle spalle. D'intorno passavano altre persone, corridori o passeggiatori, che la domenica, di buon mattino, portavano il cane nei boschi. Data la situazione, non potevamo apparire più diversi.... eppure non credo che la distanza fra noi e loro fosse molta.

Quanto hai potuto realizzare di questa visione?
Ad un certo punto il druido si fermò e con il bastone segnò il punto corretto. Ognuno posò il proprio nano a terra. Il druido stava qualche metro più in alto, in piedi su un sasso e rivolto a noi. Non ricordo una sola delle parole del druido, credo parlasse di boschi e libertà.
Quando il druido terminò la sua predica, scattarono battimani e urla. Poi scendemmo verso le auto, mentre i nani rimasero in montagna.
Che fine avranno fatto i nani? Ci avranno pisciato sopra i cani? Forse qualcuno avrà denunciato il fatto e i carabinieri dopo una lunga ricerca, hanno restituito i nani ai legittimi proprietari? Oppure i nani sono ancora lì a prendersi i saluti chi passa da quelle parti?





A cosa hai dovuto rinunciare?
In “La comunità che viene” Agamben fa un grande sforzo per dare respiro alla “vita qualunque”. Ecco le sue parole: Da dove provengono le singolarità qualunque, qual'è il loro regno? Le questioni di Tommaso sul limbo contengono gli elementi per una risposta. Secondo il teologo, infatti, la pena degli infanti non battezzati, che sono morti senz'altra colpa che il peccato originale, non può essere una pena afflittiva, come quella dell'inferno, ma unicamente una pena privativa, che consiste nella perpetua carenza della visione di Dio. Solo che di questa carenza gli abitanti del limbo, a differenza dei dannati, non provano dolore: poiché hanno soltanto la conoscenza naturale e non quella soprannaturale, che è stata piantata in noi dal battesimo, essi non sanno di essere privati del sommo bene o, se lo sanno (come ammette un'altra opinione) non possono rammaricarsene più di quanto un uomo ragionevole si affliggerebbe di non saper volare. [...] La pena più grande, la carenza della visione di Dio, si rovescia così in naturale letizia: incurabilmente perduti, essi dimorano nell'abbandono divino. Non è Dio ad averli dimenticati, ma sono essi ad averlo già sempre scordato, e contro il loro oblio resta impotente la dimenticanza divina. Probabilmente è una delle teorie più rivoluzionarie con cui possiamo confrontarci oggi perché mina le basi del pensiero occidentale fondato sulla proiezione, il progresso e l'utopia e ci chiede una posizione e delle rinunce. Prediamo la questione relativa al volo. Cosa significa, da curatore, non rammaricarsi ragionevolmente per non saper volare?

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