sull'internazionalismo
Qua sotto la recensione per il nr. 280 di Flash Art in uscita a gennaio della mostra Black Atlantic all'ar/ge kunst di Bolzano. E' una mostra anomala per l'Italia soprattutto alla luce del tema trattato.Nel 1998 Jaun Antonio Ramirez dedica una conferenza al rapporto fra il critico dell'arte e il potere. "los fallos de la Historia del Arte" (gli errori, o meglio i bachi della Storia dell'Arte) è una analisi piuttosto anticonformista dell'arte. Detta così vuol dir poco, me ne rendo conto, infatti su quello e altri acconti di Ramirez tornerò a breve. Ciò che qua interessa è un passaggio in cui il critico spagnolo mostra come nella modernità gli Stati più deficitari sotto il profilo identitario abbiano concentrato le loro risorse culturali nella archiviazione, catalogazione e nello studio della propria arte. L'orientamento nazionalistico dei finanziamenti e delle pressioni della committenza ha di converso allontanato gli stessi paesi da una riflessione di più largo respiro universale e internazionale. Il riferimento di Ramirez è rivolto alla Spagna, ma fra i paesi periferici al dibattito mondiale bisogno certamente annoverare anche l'Italia. Una nazione giovane che, per sua stessa storia e - se seguiamo Ramirez - sciagurata scelta, fatica ancor oggi a trovare un'identità e molto poco investe nella analisi di questioni internazionali. A fronte di queste logiche Balck Atlantic mi sembra una mostra di tutt'altro respiro e in via indiretta una indicazione di programmazione culturale illuminata lontana dalla retorica localistica con cui spesso ci troviamo a fare i conti.

Il Black Atlantic è una zona rimossa della storia moderna. La mostra curata da Luigi Fassi, prende spunti e titolo dalla rilettura della diaspora atlantica che Paul Gilroy ha raccolto nello scritto The Black Atlantic – Modernity and Double Consciousness. Un tema spinoso e difficile da trattare, tanto più in un testo visivo. Questioni che sollecitano la coscienza collettiva come razzismo, indifferenza e sfruttamento avrebbero potuto spingere verso derive emotive o approcci fortemente retorici. La scelta di artisti dal registro diaristico ha giovato all'analisi e al ritmo della mostra. Gli oggetti non fanno sentire il proprio peso e anche quando l'affondo critico si fa più diretto, la retorica è equilibrata, a favore della pregnanza delle questioni. La storia della diaspora da Colombo si allunga così al nostro quotidiano.
Gli artisti inviati hanno fatto della propria appartenenza culturale il punto di partenza della loro ricerca. Tre gli sguardi in campo. Quello più diretto delle vittime della colonizzazione come per Hank Willis Thomas e Kiluanji Kia Henda. Entrambi mostrano la continuità nel presente delle implicazioni economiche e culturali del colonialismo e tengono alto il livello di allerta storica, su questioni irrisolte come quella razzista negli Stati Uniti e in Europa, o minimizzate nelle pieghe della geografia economica, come il disastro economico e culturale post guerra fredda in Angola per il secondo. Il secondo sguardo è quello del carnefice: Nanna Debois avvicina la storia coloniale che la Danimarca ha deciso di chiudere da oltre un secolo. In lei la testimonianza diventa problematicizzazione dei modelli di esperienza del mondo. Infine lo sguardo più neutro di Maryam Jafri. L'artista di orgine pakistana, ma con una biografia globalizzata si concentra sulle cerimonie dei trattati di indipendenza. La lunga serie di immagini ricavate dagli archivi dei diversi Stati mettono in dubbio le radici universaliste del pensiero occidentale da cui ancora facciamo fatica a staccarci.
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