alcune criticità irrisolte connesse alla curatela

Alcune criticità irrisolte connesse alla curatela: la riflessione prende spunto dalla recensione della mostra di Monica Bonvicini al Museion che ho scritto per il numero 279 di Falsh Art e si allarga a considerazioni di più ampio respiro a partire dalla rilettura di un articolo di Lawrence Alloway pubblicato nel maggio del 1975 su Artforum e ripubblicato nell'antologia di scritti Thinking about Exhibition, Routledge, Oxon and New York, 1996.


In “La distruzione dell'arte. Iconoclastia e vandalismo dalla Rivoluzione francese” Dario Gamboni parla dell'attacco iconoclasta come di un gesto di rottura in grado di scatenare due effetti di rilievo. Il primo, viscerale, è l'ammirazione dell'azione stessa, cioè la possibilità di apprezzare a priori l'atto di rifiuto attivo. Il secondo, più riflessivo, è la capacità esclusiva di evidenziare tramite una negazione, la cultura che l'opera sostiene e da cui è sostenuta. La ricerca di Monica Bonvicini insiste da anni su questo doppio polo fisico e speculativo. Se la personale del Museion non propone opere di rilievo rispetto a quanto già visto altrove, la mostra si relaziona perfettamente con il contesto che la ospita e ha il pregio di evidenziare le criticità più rilevanti della ricerca dell'artista.
Il primo confronto, il più forte, è con lo spazio. Il linguaggio architettonico dell'ultimo piano dell'edificio è annullato. I due grandi lati vetrati che si aprono sul fiume e sulla città sono inaccessibili. Il potere che vede e controlla e il piacere dell'essere guardati, sono negati. Da parte Stonewall III, la grande opera già in collezione permanente e perno della mostra, e dall'altra una falsa parete composta da pannelli per appendere gli attrezzi da lavoro, inchiodano lo spettatore al centro. Lì in mezzo si è costretti ad una sorta di corpo a corpo con gli oggetti. Una collezione di foto di mostre in fase di allestimento, immagini di interni di officine di muratori, i noti strumenti da lavoro ricoperti di pelle, delle citazioni sessiste e una motosega impiantata in un cubo, svelano i rapporti di sussidiarietà fra le questioni di genere, i simboli e l'inerzia culturale. Una mostra complessa per temi e sviluppo semantico e corredata da un catalogo di sole immagini ideato dall'artista, che purtroppo mal risponde ai desideri di contestualizzazione culturale stimolati dalla visita.


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Nel maggio del 1975 esce su Artforum un artico di Lawrence Alloway sulla pratica curatoriale. The Great Curatorial Dim-Out parla, come da titolo, dell'oscuramento della figura del curatore. Allowey parte dalle funzioni fondamentali del curatore d'arte: acquistare opere d'arte per il museo, preservare la collezione permanente, esporre le opere d'arte. Dal momento che le mostre permanenti e temporanee sono la forma attraverso la quale il museo dichiara la sua attività, il curatore è “l'interfaccia fra il museo come istituzione e il pubblico come consumatore”. Il curatore agisce dunque quale mediatore fra due istanze. Il suo è un incarico pubblico con relative responsabilità culturali. Quando abbiamo però a che fare con l'arte contemporanea era già evidente allora, circa 30 anni fa, che le cose siano più complesse. “I musei vanno visti in relazione al resto del mondo dell'arte come sistemi di informazione” in grado di decidere il successo di un artista e quindi del suo gallerista e del suo collezionista. “Succede che gli artisti, i venditori e i collezionisti condividano un gusto e un interesse comune. Il centro della loro attenzione è l'opera d'arte.” […] “Il curatore è chiamato ad unirsi al gruppo artista-venditore-collezionista e dunque a fare del museo un servizio per il mercato allargato, oppure è una figura indipendente fuori dalle grandi strategie?”
Le possibilità per il curatore di dissentire sono poche perché spesso i musei sono finanziati o governati nei consigli di amministrazione da potenti collezionisti, ma soprattutto perché la necessità di sentirsi integrato in un movimento generazionale e “il piacere di appartenere ad un gruppo, ad una elite, spesso supera la soddisfazione del non conformismo”.
Il curatore si trova così in una condizione infelice: “il servitore dell'artista e lo schiavo del mercato” mentre le mostre “tendono a ridurre la nostra ammirazione piuttosto che estendere la nostra conoscenza”.
Il pezzo di Alloway, oltre alla lucidità di un'analisi che le dinamiche degli ultimi trent'anni hanno confermato, è interessante nell'insieme in cui lo ripropongo, per la sintomatologia e la cura proposta.
“Un sintomo dell'indebolimento della funzione curatoriale è il declino del catalogo, una questione seria in quanto il catalogo dura più della mostra. Siccome i musei costituiscono, per certi versi, una forma protetta di pubblicazione, hanno l'opportunità di provvedere a degli studi non compromessi.” Alloway cita una lunga serie di cataloghi che, a sua opinione, sono esemplari: le monografie di William Seitz su Gorky, Tobey e Hofmann o quelle di William S. Rubin per Picasso, Mirò, Frank Stella. Poi rincara la dose: un catalogo “non è un vezzo e non è per gli amatori dell'estetica; funziona se contiene biografie verificabili, stilistiche, comparative o informazioni sociali in forma semplice da consultare”. Un esempio in negativo: “Quando Linda Shearer scrive della pitture di Marden (Brice Marden): che siano romantici, compassionevoli, sentimentali o austeri, essi trasmettono in una maniera empatica e toccante un vero senso di alienazione. Linda Shearer ha sbagliato canale. Questo è il tipo di pezzo che si scrive nelle recensioni per generare attenzione verso un nuovo artista, e non è richiesto quando ci troviamo di fronte a trenta singolari quadri degli ultimi dieci anni. L'analisi, che non è nemica della cordialità o della passione, è ciò che serve.”

In chiusura di pezzo, il critico e curatore americano propone anche un approfondimento della genesi del problema nonché una possibile cura:
“assegnando le funzioni 'educative' ad altri, i direttori e i consigli di amministrazione hanno separato i curatori da ciò che dovrebbe essere una motivazione centrale della loro condotta. In assenza di un ideale educativo condiviso da tutto il museo, i curatori gravitano in differenti fasi di dipendenza dal mercato, spostando in maniera determinante la distribuzione dell'arte”. […] “Ciò che serve è una qualche forma di associazione che sia il più possibile orientata all'auto-regolazione e alla protezione del mestiere. Uno standard etico incomincerebbe a proteggere i curatori da ritrosie involontarie o consce complicità con le pressioni imprenditoriali”.

Le parole di Alloway sono piuttosto pedanti nel tono, ma non credo che sia solo questo il motivo per cui si continua a sentire il bisogno di pubblicarle.


Intanto vi propongo l'ultimo e-flux che ho ricevuto qualche minuto prima di pubblicare sul blog questo pezzo.

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