17 luglio 2010


Quando si libera uno spazio ingombrante come fu il regime per l'Albania, succede sempre qualcosa di grande. I segni del capovolgimento sono svariati e forse ancora in cerca di un loro equilibrio. Gli artisti che hanno una passione per i cambiamenti si infilano in queste dinamiche e cercano a volte di leggerle, a volte di documentarle, a volte di sublimarle o modificarle. La storia di Edi Rama è nota. Artista di buona fama residente a Parigi, dopo esperienze politiche nel campo della cultura, nel 2000 diventa sindaco di Tirana. Da allora, abbandonata la carriera che aveva sviluppato fra curatori, artisti e gallerie, decide di virare definitivamente sulla politica , dichiarando che la sua è un'azione artista oltre l'idea stessa di arte. Come dargli torto, da oltre un secolo l'arte, cioè da quando ha perso ogni funzionalità e guadagnato tutte le arbitrarietà invocate, cerca esplicitamente connessioni con la vita. Forse con alle spalle queste considerazioni Edi Rama si è buttato nella gestione del territorio. Fra i suoi progetti più noti c'è il Façades Project. In occasione della Biennale internazionale di Tirana invitò un gruppo di noti artisti internazionali a dipingere le facciate dei vecchi blocchi comunisti. Le facciate oggi possono piacere o meno, alcune sono scolorite, altre hanno mantenuto integro il loro appeal, ma la cosa più rilevante è come la pratica Edi Rama sia entrata nella cultura costruttiva dell'Albania. Da allora anche chi non aveva goduto del tocco di Olafur Eliasson o Franz Ackermann comunque ha deciso di colorare in autonomia il proprio balcone o l'intero palazzo. Oggi attraversare la città è una gita nella retorica dell'astrattismo che si contrappone in maniera netta all'idealismo del realismo socialista che invece è gelosamente custodito nella Galleria Nazionale. Noi arriviamo lì verso le cinque e ci godiamo lo spettacolo. Ci sono i migliori quadri del periodo comunista. Il tema è piuttosto banale, uomini e donne comune mentre costruiscono, combattono, acclamano il capo o fieri ubbidiscono. Il lavoro non è comunicato come lavoro, cioè come fatica a cui corrisponde una remunerazione e il resto sono fatti propri, ma come coinvolgimento totale, costruzione, opera. Nota con acume il Principe: «vedi noi siamo come le icone anonime del socialismo, testimoniamo con la nostra presenza lo stato dei castelli. Li certifichiamo da turisti come oggetti che merita visitare». Il tempo dell'artista e quello della gallerista davanti al castello è il tempo liberato per eccellenza, lo stesso attraverso il quale il collezionista, terzo e invisibile protagonista, costruisce un altro mondo. Il collezionista è il vero inquilino dell'intérieur diceva Benjamin. Il mezzo è la fotografia che sostituisce l'idealismo pittorico e come si diceva, l'obiettivo è puntato sull'individuazione di un fenomeno del passaggio al capitalismo e che, come l'astrattismo diffuso di Edi Rama, si candida ad influenzare il paesaggio reale e culturale del Paese. Usciamo dalla galleria e a piedi andiamo verso le facciate colorate. Qunado le superiamo dietro troviamo la solita e nuova selva di costruzioni affastellate fra vicoli senza nome e vicoli improvvisati. Un'operazione d'artista, potrebbe dire banalmente chi voglia fare persa su uno stereotipo noto per infamare Edi Rama, «una speculazione edilizia che toglie aria e sole agli appartamenti» dice il Principe. Abbiamo fotografato tutti i castelli. Forse ne mancano un paio verso Skutari. Poi chissà, ne stanno costruendo ovunque, soprattutto fuori dalle città. «Grazie per l'invito Principe. Ma come sono le foto? Cavolo mi faccio sempre convincere dagli artisti a seguirli nelle loro intuizioni. Ma poi perché mi chiamo l'Australiana?».

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