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Alcune domande sullo Spettatore

Un paio di giorni fa, Barbara Schiavulli e Paolo Woods hanno raccontato a Rovereto le loro esperienze di giornalisti e fotografi freelance. Sono due avventurosi. Con molta paura e altrettanto coraggio sono spesso alle prese con le guerre del mondo o con indagini di grande scala e scarsa rilevanza mediatica. Hanno accennato dei cinesi in Africa, gli africani in Cina, i cicli del petrolio o ancora il terromoto ad Haiti e ovviamente le due guerre in cui siamo implicati: l'Iraq e l'Afganistan. A chiacchierare con i due c'era Lucio Caracciolo, direttore di Limes e grande esperto di geopolitica.



Il ritornello concettuale del pensiero di Caraccio, la base su cui faceva leva per spiegare le attuali strategie di politica internazionale contemporanea, era incentrato sul rapporto fra visibilità e presenza. Ad un certo punto l'ha espresso lui stesso, proprio mentre si parlava dei cinesi in Africa. I cinesi in Africa, ma anche altrove, sono molto presenti e poco visibili.
24 ore prima io li avevo visti, o meglio, alcuni, maldestramente vestiti da giapponesi o tailandesi, mi avevano servito al tavolo. Da quella serata ne ero uscito con il gusto dell'olio di palma sulle labbra, qualche euro in meno e un assioma. “Niente è cinese e non c'è nulla che non lo sia”. Da questa prospettiva, che esclude le lanterne rosse, le bacchette, la erre, l'atteggiamento superiore degli avventori, gli sfottò, ma include i molti bar, le pizzerie, i ristoranti giapponesi, vietnamiti, tailandesi, la cucina mediterranea, dicevo, da questa prospettiva che è poi quella delle mie scarpe e probabilmente dell'80% dei miei consumi, i cinesi sono l'avanguardia della globalizzazione. Certo anche Mc Donalds ci prova. Ora che ci sono i mondiali di calcio regala bandierine tedesche ai tedeschi, italiane agli italiani e giapponesi ai giapponesi. Ma i mondiali sono il museo della nazione, uno degli ultimi palchi del corpo occidentale. Mentre noi giochiamo a Johannesburg e preghiamo gli dei affinché accolgano nell'Olimpo i nostri campioni, i cinesi lavorano in Africa. Qualcuno dovrà pur lavorare, no? Infatti pare che nessuno si lamenti apertamente.



Barbara Schiavulli, ha incominciato a lavorare per il Gazzettino di Venezia, poi è partita per la Palestina e lì ha aperto la sua carriera di giornalista di guerra. Ora è freelance, durante la conferenza ha manifestato più volte la volontà di ottenere il contratto che i giornali le negano. Paolo Woods invece non si è lamentato per le proprie finanze. Forse, come si dice in questi casi, è ricco di famiglia. Io mi sono sentito vicino ad entrambi, vuoi perché non ho un'entrata fissa o perché, malgrado non sia ricco, non mi pongo problemi di denaro. Ben altre erano le mie invidie. Mentre parlavano di guerra, grandi capitali, materie prime, politiche internazionali, mi saliva la voglia di prendere e partire. C'era in quelle ricerche l'adrenalina del senso. Ma quale? Quell'esperienza che invidio loro, che cos'è se non una forma di estremizzazione della posizione dello spettatore? Lungo il filo dei collegamenti, dunque qual'è il valore originario e finale della ricerca? La positività sociale che la parola si porta appresso a quale vertigine si richiama?
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Museion, Bolzano, dintorni

Una ragazza dell'Università di Venezia, che aveva l'esigenza di uno sguardo interno al territorio, ma esterno alle istituzioni, mi ha interpellato per una intervista sul Museion, Bolzano e dintorni. Dal momento che ho deciso di non disperdere testi e appunti, la pubblico nella sezione "pause". Ecco lo scambio.




1. Rispetto al sistema museale dell’arte contemporanea italiana, in che ottica si situa il Museion, quali sono i suoi obiettivi e le sue finalità e che valore ha avuto in ciò la creazione di una sede ex- novo?

Il Museion apre il nuovo spazio con un concorso internazionale che ha assegnato a Corinne Diseren il ruolo di Direttrice. La curatrice di origine svizzera con esperienze e studi globali, ha subito fatto valere i suoi contatti nel circuito internazionale dell'arte contemporanea, lanciando un programma promettente e ambizioso. Le note vicende e polemiche seguite all'inaugurazione ed una gestione poco accorta delle finanze e del rischio culturale, hanno riportato in sella alla nuova struttura il precedente gruppo di lavoro capitanato questa volta da Letizia Ragaglia, che sino ad allora aveva ricoperto il ruolo di curatrice. Da questo punto di vista la nuova sede non ha prodotto, ad oggi, il balzo sperato. Dal protagonismo internazionale delle prime ambizioni ci si è spostati o meglio, si è tornati, ad una dimensione locale e nazionale e ad una politica culturale piuttosto prudente.


2. La città di Bolzano è stata un terreno fertile in cui avanzare un progetto di questo tipo oppure vi sono state delle difficoltà o degli ostacoli, e se sì quali?

A Bolzano si è vissuta la stessa battaglia culturale e politica che vediamo oggi in atto in molte zone d'Europa in a cui ad una città viva, internazionale nelle ambizioni e di solito povera di risorse si contrappone una provincia conservatrice, bigotta e ricca. Negli anni passati un gruppo dirigente illuminato è riuscito a portare avanti e a vincere molte e importanti battaglie per la modernizzazione della cultura. Poi il fallimento iniziale del Museion ha cambiato un po' le carte in tavola a favore di un modello più conservativo.


3. Con il Museion, va ad arricchirsi dal punto di vista delle offerte culturali, una regione di per sé già molto ricca, in cui spiccano il Mart di Rovereto e la Galleria Civica di Trento.
In che tipo di rapporti si pone il Museion con queste realtà? Vi sono delle collaborazioni?

Ognuno va per la sua strada. Il Museion cerca di tenere posizioni in vista di tempi migliori. Il Mart è lanciato sulla via delle collaborazioni con i medi e grandi musei internazionali d'arte moderna e quindi delle mostre in grado di attirare un buon numero di persone, la Galleria Civica sta cercando di rafforzare la neonata Fondazione coinvolgendo i collezionisti. In questo panorama per la ricerca resta poco spazio. Forse le migliori indicazioni arrivano dalle collaborazioni con le due Università da cui, a mio avviso, emergeranno le sorprese migliori negli anni a venire.


4. Oltre a trovarsi in una regione culturalmente molto fertile, Bolzano si situa anche in una zona di crocevia tra diverse culture e nazioni. Questo dato ha contribuito a rendere maggiormente
internazionale il respiro del Museion?

Nelle intenzioni si. Credo sia una via ancora percorribile.




5. Con il progetto di Garutti nel quartiere Don Bosco, si è tentato di coinvolgere il pubblico in
un’azione di avvicinamento verso l’arte contemporanea, offrendo loro la possibilità e gli strumenti per comprenderne il linguaggio e le potenzialità. Che esiti ha avuto il progetto?

Il Cubo Garutti è una traslazione nello spazio del Museion. Così l'opera è stata intesa dall'artista e così è intesa dall'Istituzione. A partire da questi presupposti è difficile valutarne l'impatto: qualcuno passerà di lì e sarà indifferente, altri proveranno un piacere che terranno per sé, altri ancora invece manifestano apertamente un certo scetticismo. Questa è a mio avviso è la misura in cui va letta la portata di quel progetto. Poi una volta all'anno il Museion forza un po' i limiti fisici del Cubo (non è possibile proiettare, non c'è l'audio, non si può entrare) e chiede ad un artista di fare un lavoro più partecipativo. Gli esiti sono sempre stati buoni.
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Appunti sparsi sulla storia della curatela

Come ho già detto in qualcuno fra i post, mi sto occupando da un certo periodo della descrizione del sistema arte con particolare riferimento alla figura del curatore e alle innovazione che tale figura porta. E' una storia non scritta abbastanza complessa che si snoda fra le molte competenze di cui il curatore oggi si è fatto carico. Presto ne tratterò in maniera organica e più ufficiale, intanto segue qualche spunto dai testi con cui mi sto accompagnando.



Pieter van Laer


"Ad allentare lo stretto legame fra artisti e committenti, le mostre annuali o periodiche di pittura giocano un ruolo fondamentale. Organizzate in occasione di ricorrenze religiose o di solenni processioni (...) ponevano l'artista, spesso alle prime armi, in contatto con un pubblico più vasto, liberandolo dalle più limitanti richieste private come dalle commissioni ecclesiastiche. Vi si presentavano principalmente giovani artisti stranieri, desiderosi di farsi conoscere o anche specialisti dei nuovi generi, considerati minori e subalterni dalla critica ufficiale, del paesaggio e della natura morta. Le mostre, interferendo e contrastando le committenze tradizionali, davano l'opportunità di conoscere maniere, tendenze e stili diversi, rendendo le opere largamente accessibili e liberando la pittura da una fruizione elitaria e intellettuale. Emblematico in questo senso il caso della fortuna dei Bamboccianti, amanti dai collezionisti e dai conoscitori più aperti e lanciati dalle mostre e dal mercato e avversati dalla critica ufficiale di stampo classicista. La storiografia contemporanea li giudicava pittori di genere inferiore, dei dilettanti."*

* Cristina De Benedictis, Per la storia del collezionismo italiano, Ponte alle Grazie, Firenze, 1991




Andries Both
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utopia e neotenia




Mi scuso per la presunzione. La mia è un'indicazione pedagogica: per affrontare il tema dell'utopia dobbiamo farci carico dello stato neotenico di cui siamo rappresentanti e del rapporto con il presente che ne è primo riscontro.

Qualche settimana fa Julia Trolp mi ha carinamente invitato a rispondere ad una intervista che verrà pubblicata in occasione della mostra "let's go outside" a cura di Daniele Capra presso "Superstudio Più".
Credo che Julia mi abbia invitato memore di alcuni progetti che ho portato avanti in questi anni, uno per tutti il premio alla discussione ontologica delle arti, mascherato sotto la dicitura di "premio nazionale alle passioni" che l'anno scorso ha chiuso la prima edizione.

Per giungere al dunque: il tema dell'utopia è interessante se inquadrato in una dimensione proiettiva di origine moderna unitamente al costante lavoro in favore della vita e a scapito necessariamente della morte che la religione cattolica porta avanti da secoli. Da quel momento in poi, cioè dal momento in cui la vita entra nella scena del presente come soggetto in grado di avere una sua parte e una sua ragione e non solo come dato di fatto, l'utopia diventa qualcosa di concreto e raggiungibile. L'utopia inizia a gettare una luce sul mondo tanto da imprimerne la rappresentazione e diventare una sorta di stampo per il presente. Il peccato originario è neotenico, cioè indossa le vesti della storia.


Qui di seguito l'intervista con Julia, sempre affascinante perché maledettamente testarda.


All’inizio della tua personale avventura, cosa avevi in mente? Che visione avevi?
Penso che all'inizio, ma proprio all'inizio si trattasse di una cantina. Era l'interrato di una vecchia scuola che alcuni amici avevano occupato alla periferia di Torino. Io intendevo occuparla a mia volta per costruire una cappella e officiare. Mi ritirai in tempo e la cappella non la feci mai.
Per dar corso a desideri del mio spirito mi affidai al già testato “rito di liberazione dei nani da giardino”. Lo officiai con alcuni amici, dopo una lunga notte di balli, una mattina all'alba, sul Musiné.
Guidati da un druido scalammo i pendii della montagna. Eravamo una ventina, alcuni con tatuaggi e piercing, tutti con un nano sulle spalle. D'intorno passavano altre persone, corridori o passeggiatori, che la domenica, di buon mattino, portavano il cane nei boschi. Data la situazione, non potevamo apparire più diversi.... eppure non credo che la distanza fra noi e loro fosse molta.

Quanto hai potuto realizzare di questa visione?
Ad un certo punto il druido si fermò e con il bastone segnò il punto corretto. Ognuno posò il proprio nano a terra. Il druido stava qualche metro più in alto, in piedi su un sasso e rivolto a noi. Non ricordo una sola delle parole del druido, credo parlasse di boschi e libertà.
Quando il druido terminò la sua predica, scattarono battimani e urla. Poi scendemmo verso le auto, mentre i nani rimasero in montagna.
Che fine avranno fatto i nani? Ci avranno pisciato sopra i cani? Forse qualcuno avrà denunciato il fatto e i carabinieri dopo una lunga ricerca, hanno restituito i nani ai legittimi proprietari? Oppure i nani sono ancora lì a prendersi i saluti chi passa da quelle parti?





A cosa hai dovuto rinunciare?
In “La comunità che viene” Agamben fa un grande sforzo per dare respiro alla “vita qualunque”. Ecco le sue parole: Da dove provengono le singolarità qualunque, qual'è il loro regno? Le questioni di Tommaso sul limbo contengono gli elementi per una risposta. Secondo il teologo, infatti, la pena degli infanti non battezzati, che sono morti senz'altra colpa che il peccato originale, non può essere una pena afflittiva, come quella dell'inferno, ma unicamente una pena privativa, che consiste nella perpetua carenza della visione di Dio. Solo che di questa carenza gli abitanti del limbo, a differenza dei dannati, non provano dolore: poiché hanno soltanto la conoscenza naturale e non quella soprannaturale, che è stata piantata in noi dal battesimo, essi non sanno di essere privati del sommo bene o, se lo sanno (come ammette un'altra opinione) non possono rammaricarsene più di quanto un uomo ragionevole si affliggerebbe di non saper volare. [...] La pena più grande, la carenza della visione di Dio, si rovescia così in naturale letizia: incurabilmente perduti, essi dimorano nell'abbandono divino. Non è Dio ad averli dimenticati, ma sono essi ad averlo già sempre scordato, e contro il loro oblio resta impotente la dimenticanza divina. Probabilmente è una delle teorie più rivoluzionarie con cui possiamo confrontarci oggi perché mina le basi del pensiero occidentale fondato sulla proiezione, il progresso e l'utopia e ci chiede una posizione e delle rinunce. Prediamo la questione relativa al volo. Cosa significa, da curatore, non rammaricarsi ragionevolmente per non saper volare?
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Internazionalità e presenza

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Nei giorni scorsi sono stato al Dutch Art Institute di Enschede per il programma Platform for (un)Solicited Reserch and Advice.
Il Dutch Art Institute ha istituito nel campus un ambizioso Master in Fine Arts. Ogni mese un ospite è chiamato ad una giornata di confronto con gli studenti su un tema specifico. Nel mio caso si è parlato del rapporto fra territorio, libertà e singolarità in relazione alle grandi manifestazioni internazionali con particolare riferimento alle biennali.
Ho sviluppato l'intervento su due fronti. Il primo riprende un testo che avevo scritto qualche tempo addietro su internazionalità e presenza. Nel secondo invece ho parlato del ruolo del curatore nella storia dell'Arte con l'intento di rispondere alla domanda: Quali cambiamenti porta la figura del curatore nelle dinamiche produttive e fruitive dell'arte contemporanea?

La risposta comprende un discorso piuttosto articolato lungo la Storia dell'Arte la cui formalizzazione richiede tempo. Alcuni dei temi sono già stati toccati, seppur marginalmente, negli articoli del blog, ma solo fra un po' sarò pronto per una risposta più strutturata. Intanto posto il primo testo.



Everybody is international in his present

The post 1989 dynamics, set by globalization to the arts, are the present, and those who wish to develop a critique have to face them. From the fall of the wall onward, the internationalization process has moved quickly to the point that it determines what today can be defined a super-site or a super-time of the art that articulates itself around a series of appointments less and less visible: biennials, talks, education.
The fact by itself is positive: the attention on the disciple has multiplied the possibilities for artists and operators who, in great part historically mobile and progressive, have found themselves at ease.
The other face of the medal is the contradiction that emerges on the relationships between internationality and progressivism. The imprinted acceleration has determined reflections on the real that pass through the only possible eye under the following conditions: what belongs to the tourist and according to what he sees (the real) can be beautiful, good or bad, but it is inevitably outside, somewhere else and in another time. The negative result is a missed connection between singularity, liberty and territory...
On the traces of this impasse, ambition resides in improving the points of contact between internationality and the present. The choices, on which it is possible to work, stem from two thoughts.
-The first thought regards art’s ontology and the upstage nature that characterizes the discipline. It is a position that tries to redefine art’s self-defining process and it points out to an enlargement of the borders beyond the sites in which art is programmatically cultivated and professionally addressed. Art, within this vision, is not what lives inside an artistic frame but it is the upstage action that speaks.
-The second thought is concerned with a rethinking of the exhibiting models of the great international shows and is concentrated on the possibility of lengthening the times of contact between internationalization and time, and the spaces on which it acts.
Along these lines you can discover that the crossroads between internationality and presence talks of art’s presumption, of selfishness, of what we desire and of our attitude towards things.


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Ognuno è internazionale al suo presente


Le dinamiche post 1989 imposte dalla globalizzazione alle arti sono il presente con cui chiunque voglia sviluppare una critica si deve confrontare. Dalla caduta del muro in poi il processo di internazionalizzazione si è mosso con rapidità sino a determinare quello che oggi è possibile definire come un super-luogo e un super-tempo dell'arte che si articola intorno ad una serie di appuntamenti sempre meno distinguibili: mercato, biennali, talks, formazione. Il fatto è in se positivo: l'attenzione sulla disciplina ha moltiplicato le possibilità per artisti e operatori che, in gran parte storicamente mobili e progressisti, si sono trovati a loro agio.
L'altra faccia della medaglia è la contraddizione che emerge nel rapporto fra internazionalità e progressismo: l'accelerazione impressa ha determinato riflessioni sul reale che passano attraverso l'unico occhio possibile a queste condizioni: quello che appartiene al turista e secondo il quale ciò che vede (il reale) può essere bello, buono o brutto ma è inevitabilmente esterno: in un altro luogo e in un altro tempo. Il risultato negativo è la mancata connessione fra singolarità, libertà, territorio.

Sulla tracce di questa impasse l'ambizione è di migliorare i punti di contatto fra l'internazionale e il presente. Le scelte che è possibile operare fanno leva su due ripensamenti.

- La prima riflessione riguarda l'ontologia dell'arte e la natura altera che caratterizza la disciplina. È una posizione che cerca di ridefinire il processo di autodefinizione dell'arte e prospetta un allargamento dei confini al di là dei luoghi in cui l'arte viene programmaticamente coltivata e professionalmente indirizzata. L'arte in questa visione non è ciò che vive all'interno di una cornice artistica ma è l'azione altera che parla.

- La seconda riflessione riguarda il ripensamento dei modelli espositivi delle grandi manifestazioni internazionali e si concentra sulla possibilità di allungare i tempi di contatto fra l'internazionalismo, il tempo e gli spazi in cui agisce.

Lungo questi pensieri si scopre che l'incrocio fra internazionalità e presenza parla delle presunzioni dell'arte, di egoismi, di ciò che desideriamo e del nostro atteggiamento verso le cose.
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Di Squali e Camere delle Meraviglie

Guardo con una certa insistenza i quattro squali che ho qua sotto. Certo Robert Longo e Damien Hirst non sono due grandi artisti. C'è qualcuno che pensa il contrario? Sono con altrettanta sicurezza due pezzi da 90 del mercato dell'arte. Se Robert Longo è il classico artista americano ben difeso dal mercato, Damien Hirst ha fatto di più, a fine anni '90 si è reinventato il mercato. Sensation è forse la mostra che a fine anni '90 lancia la speculazione sui giovani. Un'onda lunga e fortunata che dura ancor oggi.
Ad ogni modo, credo che altri, più preparati di me abbiano già approfondito l'argomento. A mio comodo basta sapere che è una storia di grandi mostre, pubblicità e fiere. E' il sistema dell'arte che esce allo scoperto e palesa i suoi meccanismi così come si sono sviluppati nella storia dell'arte. Su questo tema ritornerò. Ora mi interessa ribadire questa convergenza fra camera delle meraviglie e collezionismo, già ampiamente sviluppata dalla storia dell'arte e affermare che lo squalo di Ambas o quello in 3D de Lo Squalo 3 mi sembrano migliori di quelli di Longo e di Hirst verso i quali provo un certo pudore nell'averli pubblicati.
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anche Robert Longo si è occupato a più riprese di squali. Ma ben più affascinante è "lo squalo 3" per il cinema tridimensionale. I collezionisti delle Camere delle meraviglie si erano messi a caccia di quali dimensioni?


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da qualche tempo sto ragionando sull'iperbole nell'arte e il suo collegamento con il collezionismo. Manco a dirlo, le poche parole di Benjamin sulle Camere delle meraviglie sono uno dei luoghi di partenza della riflessione. Proprio a Innsbruck, il castello di Ambas ne ospita una.


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non mi è mai piaciuto e mai mi ha sorpreso, però credo che segnali la direzione di un gusto radicato nel tempo.
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La Grande Riffa




il Cubo

L'invito si è portato appresso il vincolo del Cubo. Il Cubo Garutti, ufficialmente Piccolo Museion è stato il punto di partenza del progetto La Grande Riffa. Quando ho incontrato Daniele Ansidei e Alessandro Sambini l'idea aveva già preso forma da sé. Loro quel giorno erano stati nel quartiere per tastare la sensibilità dello stesso verso il Cubo. Fingendosi persone alla ricerca del Piccolo Museion, chiedevano alla gente informazioni per raggiungerlo, quale era la loro idea e infine cosa sarebbe stato meglio fare. Nel mix di considerazioni negative e positive (più negative che positive) emergeva una discreta predominanza di proposte: “io ci farei la lap-dance, tagliare gli alberi è un'arte” e così via. In quel momento nasce l'idea di lasciare il Cubo alle proposte del quartiere.


non sarà questa un'opera d'arte

Il Piccolo Museion è stato pensato e progettato da Alberto Garutti come il luogo di una traslazione, dal centro verso la periferia, del patrimonio artistico. Un'opera-zione democratica, tesa a risolvere lo iato nei consumi culturali, fra classi economicamente agiate e quelle più sofferenti. Il gesto, dal carattere simbolico, ha ambizioni proporzionali alla sua stessa stazza. Dichiara l'artista: in questa piccola stanza saranno esposte opere del Museo d’arte moderna e contemporanea di Bolzano per far sì che i cittadini di questo quartiere le possano vedere. Quest’opera, voluta dalla Provincia Autonoma di Bolzano-Alto Adige - Cultura Italiana, è dedicata a tutti quelli che passando di qui anche per un solo istante, la guarderanno1.




al Cubo


La Grande Riffa rilancia sul progetto di Garutti. Da questo punto di vista ne amplifica lo spirito e lo tradisce. Le ambizioni del Piccolo Museion si limitano al piacere che chiunque, non importa quanti, può provare nella contemplazione di un'opera d'arte.

Il progetto originario prende spunto da una ontologia propriamente classica, che vede l'opera d'arte come un oggetto da contemplare e la cui fruizione - comprensione, può dare piacere. Garutti nulla discute di tutto ciò, semplicemente disloca uno spazio “del centro” (sociale, culturale, economico, politico), in un cortile di periferia. Ne sia testimonianza anche la sua stessa costruzione adatta alla sola esposizione di immagine statiche o sculture, riluttante verso schermi, proiezioni, incontri o quant'altro oggi sia affine alla dimensione multimediale della ricerca artistica contemporanea.

La richiesta di Alessandro Sambini e Daniele Ansidei alla gente del quartiere di un'opinione sul Cubo matura due constatazioni. L'incapacità del Cubo di essere sacro o sacrilego e la misura di ciò che che il Cubo non può essere (una attività), e di ciò che il quartiere vorrebbe che fosse (una attività).


cosa può reggere il Cubo?

È la domanda principale o se si preferisce l'ambizione segreta da cui nasce La Grande Riffa. Se avessimo avuto un Van Gogh ci avremmo messo quello.

Quello che l'oggetto non può da solo, lo abbiamo chiesto al processo e al brio della sorte. La cosa che più ci affascina è che il Cubo sia uno spazio di possibilità. Bando al collettivismo e alle ragioni di un processo partecipato. Non ci saranno lunghe sessioni condivise sul da farsi. Alessandro e Daniele chiederanno alla gente d'intorno cosa vorrebbe farci nel Cubo. La selezione delle proposte da produrre sarà affidata alla fortuna. Le categorie classiche di bene e male, bello e brutto non ci interessano. Ancora una volta è un rischio relativo alla stazza. In quanto tale e senza imporre un modello ci sentiamo di percorrerlo.




registro, misura e portata

Il registro, la misura dell'operazione e l'eventuale portata innovativa sono contenute nell'idea carnevalesca che il progetto si porta appresso. Ciò che si discute - la bontà del Piccolo Museion nel micro e l'ontologia dell'arte nel macro - non può prescindere dallo spirito del Carnevale. La cornice si riflette nelle finalità del progetto, ne diventa misura operativa e manifesto.


il Carnevale

Nel 1984 Umberto Eco parlava per la società contemporanea di “Carnevale permanente”: se nei tempi antichi, il carnevale religioso era limitato entro un tempo, l'attuale carnevale di massa è limitato entro lo spazio: esso è sempre consentito in certi spazi, certe strade, o anche negli schermi televisivi2. La riflessione di Eco si allarga oggi al di fuori di “certi spazi”. Il consumo e la dimensione esperienziale dell'economia tendono ad allungare i tempi delle feste e a modificarne il senso. Quando siamo in festa è sempre Carnevale. Anche se il Carnevale è nel mondo occidentale una festa meno sentita del natale, il capodanno o la Pasqua, il suo spirito si è appropriato anche dei parenti più nobili. Natale, Pasqua o anche il riposo domenicale sono sempre più carnevaleschi. Anche il tempo della penitenza, del lutto o della celebrazione ha sempre più i tratti dell'abbondanza, l'abbandono, l'ebrezza, la leicità. Qualche antropologo o studioso del fenomeno potrà forse obiettare che tutto ciò sia lontano dal carattere propiziatorio e liberatorio del Carnevale del passato e che forse il nostro sia solo un surrogato di quello autentico, ma tant'è. Il nostro è un Carnevale diluito nel tempo di ogni giorno, ed è all'interno di tale equilibrio che gioca la sua parte. Ad ognuno sta poi la possibilità di modificare la ricetta, spingere su questo o quel versante. A noi è sembrato corretto (o scorretto a secondo dei punti di vista) lavorare sullo spazio di visione che il quartiere può proiettare nel Cubo. Se il Cubo è uno spazio di possibilità, allora il Carnevale può esserne il migliore interprete. Ad ognuno e alla sorte, poi, il proprio.


ribaltamento e genesi

Nella Grande Riffa il pubblico diventa artista. Lontano da ogni tentazione programmatica, la possibilità di ribaltare contiene in sé il seme della generazione. Michail Bachtin nei suoi studi mette in luce il ruolo del Carnevale nell'evoluzione del teatro moderno. La cultura popolare carnevalesca ha contribuito alla separazione dalle influenze della Chiesa medievale. Anche se il fondamentale nucleo carnevalesco di questa cultura non è la forma puramente artistica dello spettacolo teatrale, e in genere non entra nel campo dell'arte. Si colloca piuttosto ai confini tra l'arte e la vita stessa, presentata sotto la veste speciale del gioco3. Arte e vita sono parole speciali per il dizionario dell'arte contemporanea. In questo caso sono filtrate da un'opera di abbassamento: l'abbassamento significa anche iniziazione alla vita della parte inferiore del corpo, quella del ventre e degli organi genitali e, di conseguenza, di iniziazione ad atti come l'accoppiamento, il concepimento, la gravidanza, il parto, il mangiare voracemente e il soddisfare le necessità corporali. L'abbassamento scava una tomba corporea per una nuova nascita4.




il Vecchio stolto e il Vecchio saggio

...il Vecchio stolto del Carnevale è un Re che ha beatamente perduto il senno, così che la monarchia si capovolge in anarchia. Lo psicoanalista Alberto Spagnoli nel rielaborare la figura del Vecchio stolto rivendica il diritto dell'anziano a liberarsi della ragionevolezza impegnativa e razionale della civitas […] Crediamo che esista una dimensione di mezzo tra quelle del Vecchio saggio e del Vecchio stolto […] Ciò può essere letto in una modalità particolarmente sdramatizzante, nella filosofia del serio ludere che a Carnevale ha una sua propria celebrazione.5


disponibilità e casualità

La Grande Riffa si propone con la disponibilità e la casualità di cui è vettore: la leggerezza del nostro Carnevale, la riduzione della strumentalità e lo spirito di chi nulla sta facendo se non “aprire qualcosa”.

All'estrazione dei progetti vincitori c'è Marylin Monroe, parla metà in americano e metà in veneto, si diverte, come la gente d'intorno. Il primo progetto estratto è la ricerca di marito da parte di una signora del quartiere. Il secondo la richiesta di un distributore di sacchetti per gli escrementi dei cani e il terzo l'esposizione di immagini del quartiere com'era e com'è oggi.

La signora alla ricerca del marito la prima volta ha rimandato l'appuntamento di una settimana. Noi intanto avevamo appeso con il suo consenso l'annuncio sotto il falso nome di Elie Lamberti, una star greca come lei. Alessandro e Daniele avrebbero voluto fotografarla e raccogliere nel giorno degli scatti le eventuali proposte nonché i consigli dei passanti. Forse qualcuno le ha consigliato con un certo anticipo che il matrimonio non vale la candela. La seconda volta una scusa è diventata defezione. La scritta “Elie non cerca più marito” sovrapposta all'annuncio è il finale di questa prima parte.

La Sig.ra Lucia Chieregato è la richiedente del distributore di sacchetti per le deiezioni dei cani. Per due settimane il distributore è stato installato davanti al Cubo con la foto della Signora e del suo cane installata nel cubo. Scaduto il termine il quartiere ha deciso di tenere il distributore che ora è installato qualche metro più in là.

Il terzo ed ultimo progetto era il desiderio di Cristina Tambos di vedere contrapposte le foto del quartiere com'era al tempo della sua fondazione a quelle d'oggi. Avrebbe dovuto lei stessa fare le foto di oggi, ma ha rinunciato per un problema personale piuttosto importante. Sono stati gli stessi Alessandro e Daniele a scattarle. Lei poi sarà passata dal Cubo.







un successo o un fallimento?

Noi non lo sappiamo. Non c'eravamo posti un obiettivo. Hal Foster nella recensione dei libri di Nicolas Bourriaud, Relational Aesthetics e Postproduction e delle Interviews di Hans Hulrich Obrist avvicina le pratiche relazionali ad un movimento più generale legato alla società post-critica e all'arte post-teorica. “At times, the death of the author has meant not the birth of the reader as Roland Barthes speculated, so much as the befuddlement of the viewer”6. I dubbi di Hal Foster sulla capacità di tali attività di abilitare il pubblico sono legittimi. Spesso ai buoni propositi sono seguiti progetti estemporanei. Noi speriamo che ai nostri scarsi propositi possano avere una continuità più prossimale. Forse la fisicità del Cubo è da questo punto di vista, un aiuto.




Bolzano, gennaio 2010, Denis Isaia




1Dichiarazione progettuale di Alberto Garutti, in www.museion.it/#projekt_garutti&0&it

2Umberto Eco, The frames of comic freedom, in Thomas A. Sebeok (a cura di), Carnival!, Mouton Publishers, Berlin, New York, Amsterdam, 1984

3Michail Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 1979, p. 9-10

4Michail Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 1979, p. 26

5Pier Pietro Brunelli, Carnevale e Psiche, Moretti e Vitali editori, 2008, p. 40-41

6Hal Foster, Chat Rooms, 2004 in Claire Bishop (a cura di), Participation, Whitechapel Gallery, London e MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2006


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cosa ho visto di bello | trento | andrea viliani




28 novembre 2009 | Circo(lo) Wallenda
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che cos'è "cosa ho visto di bello"




Cosa ho visto di bello è una ricognizione sulle forme di esperienza e narrazione del bello contemporaneo.

Il progetto segue un formato piuttosto semplice. All'interno di una città e in collaborazione con uno spazio che ha il polso della comunità in cui opera, delle persone sono invitate a raccontare pubblicamente “cosa hanno visto di bello”.

Uniche indicazioni preliminari sono i 30 minuti riservati al racconto e l'invito a scansare astrazioni o sintesi teoriche sul bello. Cosa ho visto di bello intende dare spazio al valore della testimonianza del vissuto, letto o immaginato lasciando alla libera riflessione del pubblico, astrazioni e conclusioni.

I confini tematici sono volontariamente elisi e la scelta degli oratori è eterogenea. Negli intenti del progetto professione, attitudine, formazione ed esperienze generano un flusso narrativo spontaneo in cui la piacevolezza del racconto può sopravanzare la scientificità, insistendo - secondo una ipotizzabile varietà di registri - sul valore del contenuto.

Per ottenere questi risultati cosa ho visto di bello si regge sulla banalità della domanda posta e sulla eventuale difficoltà della risposta. Il bello è un pretesto per tenere alto il piacere e il valore del racconto fra più, ed erodere il senso strumentale della conoscenza a favore di quello compiuto dell'esperienza. Lo dice meglio Agamben quando in un passaggio chiosa: “articolare una forma di non conoscenza significa che ciò che ci è più intimo e nutriente abbia la forma non della scienza e del dogma, ma della grazia e della testimonianza”#.


# Giorgio Agamben, Nudità, nottetempo 2009
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Dell'iperbole e del soggetto. Alcune considerazioni insolite su Hélio Oiticica e Lygia Clark.

Nel 2006 Claire Bishop ha raccolto per la Whitechapel Gallery una serie di scritti sulle pratiche artistiche relazionali. Participation, questo il titolo del libro, contiene testimonianze di teorici, critici, artisti e curatori, fra cui due pezzi di Helio Oiticica. Così recita l'incipit del primo, Dance in my experience: “Before anything else I need to clarify my interest in dance, in rhythm, which in my particular case came from a vital necessity for disentellectualization. Such intellectual disinhibition, a necessary free expression, was required since I felt threatened by an excessively intellectual expression”. La posizione dionisiaca dell'artista brasiliano è piuttosto chiara e si allinea alle precedenti chiamate della storia della cultura verso corrispettivi irrazionali. La negazione del valore contemplativo si traduce nella teorizzazione del total act of life: l'esperienza corporea e mentale dell'opera d'arte, la qualità della performance anche a scapito della pregnanza del contenuto, il ritmo e la trasformabilità in contrapposizione all'eternità: “What is interesting here is the vocalization of Nat and the interpretative act of Marilyn, independent of the quality of the interpreted score or script, even if these posses, of course, a value that is relative and not abosolute as before”. Per dare forma concreta a questi presupposti Oiticica cerca di individuare degli strumenti. “It will be necessary to create environments for these works […] structural spaces that are free both to the partecipation and to the creative inventions of spectators. A pavilion, one of those used these days for industrial exhibitions would be ideal for such a purpose – it would be an opportunity for a truly efficient experience with the people, throwing them into the creative participatory notion, away from the elite exhibitions so fashionable today”.


World's Columbian Exhibition, 1893, Chicago


La richiesta di un padiglione simile a quelli usati per le rassegne industriali in cui il pubblico può sentirsi libero, ha attirato la mia attenzione per la centralità che quel modello ha nella attuale pratica espositiva. Nota è la filiazione dalle grandi esposizioni universali alle grandi biennali artistiche. La prima per convenzione, la Biennale di Venezia, ricalca con i padiglioni nazionali proprio quel modello. A fine '800 il concetto di grande mostra passa dalla scala locale dei salon, alla scala internazionale dei grandi eventi pluriennali con una moltiplicazione di attenzione e pubblico. Le esposizioni internazionali, soprattutto quelle tecnologiche, sono eventi in grado di catalizzare l'entusiasmo occidentale per il progresso. Attorno a quella propulsione architetti, organizzatori e curatori per primi coniugano l'istinto esplorativo del pubblico, ai nuovi modelli di consumo suggeriti dai passage e fondati su sicurezza, libertà di movimento e qualità. Se facciamo un salto temporale neanche troppo ampio ci accorgiamo che gli stessi tre ingredienti sono oggi le ragioni del successo commerciale delle grandi catene di distribuzione internazionali. La possibilità di sentirsi sicuro, libero di muoversi all'interno di uno spazio protetto e la garanzia industriale del prodotto sono i cardini su cui il commercio pubblico ha costruito negli ultimi 150 anni la sua fortuna economica. Un'attenzione di riguardo va poi posta alla dimensione performativa del consumo. Il girovagare sinestetico dei fine settimana nei centri storici o in quelli commerciali, ha anch'esso molto a che vedere con una dimensione dionisiaca.


Turbine Hall, Tate Modern


Le forze in cui Oiticica riponeva le sue speranze rivoluzionarie sono migrate verso lidi più sicuri. La marginalità del soggetto è diventata centrale al sistema dell'economia . Dal mondo della distribuzione il modello è stato travasato in quello della distribuzione culturale. L'ampliamento dei volumi, l'occupazione o l'imitazione di spazi industriali, l'impennata qualitativa delle opere d'arte, l'accento performativo, il linguaggio pubblicitario sono elementi che lasciano intravedere alcune fra le possibili coniugazioni. Il fatto all'interno di questo ragionamento non va oltre la constatazione e non toglie nulla alla bellezza dei lavori di Oiticica. Probabilmente li rinarra alla luce di un entusiasmo ormai scolorito. Forse restituisce a loro una forma di equilibrio. L'impossibilità e anche la non necessità di sfuggire da un movimento (destino?) più ampio.


Bookshop, Documenta X


La seconda testimonianza pubblicata in Participation è lo scambio fra Hélio Oiticica e Lygia Clark.
L'epistolario è finalizzato ad un simposio in cui Oiticica si farà portavoce della nuova scena artistica brasiliana e dunque anche del lavoro della Clark. Quest'ultima sembra poco interessata ad un resoconto generale che istituzionalizzi un movimento (quello che si chiamerà poi Tropicalismo) e nei due scritti pubblicati richiama seppur indirettamente l'amico-collega ad una maggiore attenzione all'universo che lei intende evocare per il suo lavoro e, forse, ad una più profonda concretezza nell'analisi dei fatti della vita e dell'arte. “Dearest HèliCaetaGério, […] Since Caminhando the object for me has lost its significance, and if I still use it, it is so that it becomes a mediator for partecipation. With the sensorial gloves, for exaple, it gives the measure of the act and the miraculous character of the gesture, with its spontaneity, which seems to have been forgotten. In all that I do, there really is the necessity of the human body, so that it expresses itself or is revealed as in a first [primary] experience. La zona collettiva e dionisiaca si riduce ad una esperienza più intima e cosciente. L'attivismo militante dell'uno fa fatica a rispecchiarsi nella passività riflessiva dell'altro: Mario's [Pedrosa] term, as always is excellent, but for me it is not about the moment of chance but the fruit of the moment. Fruit in the fruit sense, such is the flavour and the sensuality of eating, of living this moment”.
L'epistolario continua. Alla ricerca di una sintesi e una caratterizzazione Oiticica dice: “I believe that our great innovation is precisely the form of participation, that is, its meaning, whic is where we differ from what is proposed in super-civilezed Europe or in the USA... Lygia Clark: “As far as the idea of participation is concerned, as always there are weak artists who cannot really express themselves through thought, so instead they illustrate the issue. For me this issue indeed exist and is very important. As you say, it i exactly the relation in itself that makes it alive and important. […] But it is not participation for participation's sake and it is not a fact of saying, like Le Parc's group does, that art is an issue for the bourgeoisie. It would be too simple and too linear. There is no dept in this simplicity and nothing is truly linear. They negate precisely what is important: thought.” L'insistenza sul valore del pensiero è rivolta a quella della profondità. Ciò che più sta a cuore alla Clark non è contrastare gli eccessi di intellettualismo o le rigidità di un sistema. Il suo è sguardo è concentrato sulle ambizioni umanistiche della sua pratica.


Máscara sensoria, Lygia Clark


“More and more Pedrosa's sentence functions for my work: 'man as the object of himself'.As you see, participation is increasingly greater. There no longer is the object to express any concept but the spectator who reaches, more and more profoundly, his own self”. La ricerca si spinge oltre. Qualche pagina prima Oiticica aveva introdotto la questione di Caetano Veloso screditando l'idolatria contemporanea del pubblico verso alcune star mediatiche. La risposta della Clark parte dallo stesso lamento ma si sposta verso una visione del soggetto che è tale solo quando privo del possedimento di se stesso: “As far as Caetano's problem is concerned, it is different since he is affected as a person but is an idol; he is the opposite of myself, who no longer possesses anything, not even as a creative artist who provides what is still a total oeuvre that in the end is my self”.
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stavo scrivendo un pezzo su Oiticica e Clark. Poi ho riscoperto questo lavoro e ho pensato di prendermi una pausa

Hélio Oiticica, Invenção da cor, Penetrável Magic Square # 5, De Luxe, 1977, Instituto Inhotim - Brumadinho
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cosa ho visto di bello | trento | stefano gialanella




28 novembre 2009 | Circo(lo) Wallenda
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sull'internazionalismo

Qua sotto la recensione per il nr. 280 di Flash Art in uscita a gennaio della mostra Black Atlantic all'ar/ge kunst di Bolzano. E' una mostra anomala per l'Italia soprattutto alla luce del tema trattato.

Nel 1998 Jaun Antonio Ramirez dedica una conferenza al rapporto fra il critico dell'arte e il potere. "los fallos de la Historia del Arte" (gli errori, o meglio i bachi della Storia dell'Arte) è una analisi piuttosto anticonformista dell'arte. Detta così vuol dir poco, me ne rendo conto, infatti su quello e altri acconti di Ramirez tornerò a breve. Ciò che qua interessa è un passaggio in cui il critico spagnolo mostra come nella modernità gli Stati più deficitari sotto il profilo identitario abbiano concentrato le loro risorse culturali nella archiviazione, catalogazione e nello studio della propria arte. L'orientamento nazionalistico dei finanziamenti e delle pressioni della committenza ha di converso allontanato gli stessi paesi da una riflessione di più largo respiro universale e internazionale. Il riferimento di Ramirez è rivolto alla Spagna, ma fra i paesi periferici al dibattito mondiale bisogno certamente annoverare anche l'Italia. Una nazione giovane che, per sua stessa storia e - se seguiamo Ramirez - sciagurata scelta, fatica ancor oggi a trovare un'identità e molto poco investe nella analisi di questioni internazionali. A fronte di queste logiche Balck Atlantic mi sembra una mostra di tutt'altro respiro e in via indiretta una indicazione di programmazione culturale illuminata lontana dalla retorica localistica con cui spesso ci troviamo a fare i conti.





Il Black Atlantic è una zona rimossa della storia moderna. La mostra curata da Luigi Fassi, prende spunti e titolo dalla rilettura della diaspora atlantica che Paul Gilroy ha raccolto nello scritto The Black Atlantic – Modernity and Double Consciousness. Un tema spinoso e difficile da trattare, tanto più in un testo visivo. Questioni che sollecitano la coscienza collettiva come razzismo, indifferenza e sfruttamento avrebbero potuto spingere verso derive emotive o approcci fortemente retorici. La scelta di artisti dal registro diaristico ha giovato all'analisi e al ritmo della mostra. Gli oggetti non fanno sentire il proprio peso e anche quando l'affondo critico si fa più diretto, la retorica è equilibrata, a favore della pregnanza delle questioni. La storia della diaspora da Colombo si allunga così al nostro quotidiano.
Gli artisti inviati hanno fatto della propria appartenenza culturale il punto di partenza della loro ricerca. Tre gli sguardi in campo. Quello più diretto delle vittime della colonizzazione come per Hank Willis Thomas e Kiluanji Kia Henda. Entrambi mostrano la continuità nel presente delle implicazioni economiche e culturali del colonialismo e tengono alto il livello di allerta storica, su questioni irrisolte come quella razzista negli Stati Uniti e in Europa, o minimizzate nelle pieghe della geografia economica, come il disastro economico e culturale post guerra fredda in Angola per il secondo. Il secondo sguardo è quello del carnefice: Nanna Debois avvicina la storia coloniale che la Danimarca ha deciso di chiudere da oltre un secolo. In lei la testimonianza diventa problematicizzazione dei modelli di esperienza del mondo. Infine lo sguardo più neutro di Maryam Jafri. L'artista di orgine pakistana, ma con una biografia globalizzata si concentra sulle cerimonie dei trattati di indipendenza. La lunga serie di immagini ricavate dagli archivi dei diversi Stati mettono in dubbio le radici universaliste del pensiero occidentale da cui ancora facciamo fatica a staccarci.
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cosa ho visto di bello | trento | lofti ben jamia





28 novembre 2009 | Circo(lo) Wallenda
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TOM TIT alias ARTHUR GOOD
La science amusante, Librairie Laroussee, Paris 1890
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cosa ho visto di bello | genova



genova 9 maggio 09
(inizia con un nero)
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Francesco Arena, Canzone (Povera Patria)

A novembre di quest'anno ho seguito per Ellecontemporary projects il progetto di Francesco Arena nell'ambito di TorinOver09 / Il linguaggio crea mondi.
E' una performance che continua a ritornarmi nella testa per una serie di rindondanze:

>> il cimitero di San Pietro in Vincoli (uno dei primi moderni in Italia e possibile emblema della modernità del Regno di Sardegna a fine settecento)
>> la fondazione dell'Italia da lì a poco (anche grazie a quello che venne considerato il buon governo dei Savoia nel 1814)
>> la storia dell'Italia unita
>> la prossima celebrazione dei 150 anni dell'Unità di Italia
>> il lamento della performance

eccone la mappa




il testo del catalogo e qualche foto della performance





L'intreccio fra il luogo e i tempi è il movimento che rende possibile leggere l'opera di Francesco Arena. La pratica di assemblaggio, citazione e ricomposizione di concetti, simboli e storia, comune a tutti i suoi lavori, invita a spostarsi in una relazione fuori asse, che è possibile ripercorrere solo con il passo del bricoleur: smontando a nostra volta i rapporti fra il contesto e l'opera. Un recupero archeologico a profondità variabili che Francesco ha seguito con le immagini ed io con il testo.

“Il linguaggio crea mondi” è una formula nota agli strateghi della comunicazione e della formazione aziendale: clienti e dipendenti sono invitati ad entrare in un mondo. Nelle massime ambizioni dei manager la motivazione corrisponde al sacrilegio di un giuramento un tempo riservato allo stato di cittadinanza: per dipendenti e clienti l'adesione a quel “mondo” dovrebbe creare forme di affezione simili a quelle per la patria. L'Italia degli ultimi 15 anni racconta bene questi slittamenti fra immaginario commerciale e il governo della patria. Le forme di questi mondi immaginari sono semplici, resistenti ed edulcorate. In esse il consumatore è chiamato alla trasformazione da acquirente-utilizzatore ad acquirente-sostenitore: consumo, immaginario, identità e immagine pubblica coincidono. Il sistema replica e capovolge il meccanismo inaugurato nel 1600 dal collezionista, che per primo ha emarginato il valore dell'utilità e lasciato fuori la realtà, per costruire un mondo alternativo e migliore. Abbiamo dunque a che fare con delle camere delle meraviglie rovesciate nel pubblico e replicate in grande scala, che fanno leva sulla capacità del linguaggio di generare mimesis. La moltiplicazione degli eventi, il turismo, l'economia dello svago fanno assomigliare il mondo ad una grande wunderkammern.



Il cimitero di San Pietro in Vicoli, costruito dai Savoia nel 1776 è uno fra i primi cimiteri moderni d'Italia. Quella dei cimiteri è una storia che ha subito pochi cambiamenti e le cui linee generali possono essere delineate in poche righe. Nella Roma antica i morti venivano seppelliti fuori dal recinto sacro della città, nella maggior parte dei casi la tomba era individuale ed era corredata da una iscrizione. Le catacombe, che fungevano da sepoltura per i più poveri, saranno presto privilegiate dai cristiani perché ospitavano i corpi dei santi. La vicinanza con il sacro è la differenza che caratterizza il mondo cristiano da quello pagano. A fronte di questa esigenza, da quel momento in poi, il morto entra in una più stretta simbiosi con la quotidianità. I cadaveri sono sepolti prima nelle corti adiacenti le chiese (il camposanto) e poi sempre più vicino al cuore del sacro, sotto il pavimento delle chiese o, per chi se lo può permettere, direttamente sotto gli altari dedicati ai santi. La celebrazione della morte è astratta e collettiva: nessuna dicitura ricorda il nome del defunto. Per rivedere le targhe celebrative bisogna aspettare il XIII secolo, quando riappaiono a memoria dei personaggi illustri. Col passare del tempo epitaffi e nominazioni saranno oggetto dell'ambizione prima di molti e poi di tutti, sino a diventare un diritto acquisito del mondo moderno. Nel XVIII secolo la contiguità con il sacro perde fascino: le ragioni di un costume radicato, di un'economia florida e dello spirito, perdono il confronto con quelle contabili delle pestilenze e con quelle igieniche e civili delle continue apparizioni di ossa e residui umani per la città. Parigi, la fucina del diritto moderno, nel 1763 vieta le sepolture nelle chiese. Per le resistenze di chi gestiva affari e corpi dei trapassati, la legge diverrà operativa solo nel 1785. L'atto simbolico che ne sancisce l'operatività è la distruzione del cimetière des Innocents. Da quel momento la separazione fra corpo e spirito non è una formalità: il sacro rito del trapasso resta nelle mani della chiesa, mentre la gestione del cadavere è nelle mani dell'amministrazione pubblica.




Nel 1785 la capitale sabauda è al passo con i tempi: solo un anno dopo i nuovi cimiteri di San Pietro in Vincoli e quello ora scomparso di San Salvario, sono una realtà. Il fatto è di un certo rilievo perché contribuisce all'immagine di un governo attento e all'avanguardia. Non è un caso se, qualche anno dopo, nel 1815 il Congresso di Vienna con l'annessione della Repubblica di Genova legittimerà le ambizioni espansionistiche della Casa Savoia. Il resto è storia d'Italia: nel 1837 il cimitero di San Pietro in Vincoli viene ritenuto troppo piccolo. Le scarse condizioni igieniche già nel decennio precedente avevano consigliato la costruzione di un cimitero più grande. Dal 1837 al 1970 San Pietro in Vincoli è il silenzioso monumento di se stesso e delle tombe che ospita. Nel 1970 il comune decidere di spostare tutti i resti delle sepolture e di sigillare i pozzi di seppellimento e le cripte. A partire dagli anni '80 e con più forza in anni recenti, l'ex cimitero entra nella lista degli spazi dedicati ai molti eventi che animano la città.

Per Torinover Francesco Arena ha deciso di portare a San Pietro in Vincoli la performance Canzone (Povera Patria). In essa un uomo armato di smerigliatrice colpisce ad intermittenza una barra. Il contatto crea delle scintille a volte brevi altre lunghe. Chi sa leggere l'alfabeto Morse, un codice scarsamente generativo in termini di mimesis, in quella luce di punti e linee può trascrivere il testo della canzone “povera patria” di Franco Battiato:

Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos'è il pudore,
si credono potenti e gli va bene quello che fanno;
e tutto gli appartiene.
Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!
Questo paese è devastato dal dolore...
ma non vi danno un po' di dispiacere
quei corpi in terra senza più calore?
Non cambierà, non cambierà
no cambierà, forse cambierà.
Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali?
Nel fango affonda lo stivale dei maiali.
Me ne vergogno un poco, e mi fa male
vedere un uomo come un animale.
Non cambierà, non cambierà
si che cambierà, vedrai che cambierà.
Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali
che possa contemplare il cielo e i fiori,
che non si parli più di dittature
se avremo ancora un po' da vivere...
La primavera intanto tarda ad arrivare



grazie a Elisa Lenhard di Ellecontemporary projects per avermi inviato a curare un progetto per TorinOver e a Francesco Arena per aver accettato a sua volta il mio.
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alcune criticità irrisolte connesse alla curatela

Alcune criticità irrisolte connesse alla curatela: la riflessione prende spunto dalla recensione della mostra di Monica Bonvicini al Museion che ho scritto per il numero 279 di Falsh Art e si allarga a considerazioni di più ampio respiro a partire dalla rilettura di un articolo di Lawrence Alloway pubblicato nel maggio del 1975 su Artforum e ripubblicato nell'antologia di scritti Thinking about Exhibition, Routledge, Oxon and New York, 1996.


In “La distruzione dell'arte. Iconoclastia e vandalismo dalla Rivoluzione francese” Dario Gamboni parla dell'attacco iconoclasta come di un gesto di rottura in grado di scatenare due effetti di rilievo. Il primo, viscerale, è l'ammirazione dell'azione stessa, cioè la possibilità di apprezzare a priori l'atto di rifiuto attivo. Il secondo, più riflessivo, è la capacità esclusiva di evidenziare tramite una negazione, la cultura che l'opera sostiene e da cui è sostenuta. La ricerca di Monica Bonvicini insiste da anni su questo doppio polo fisico e speculativo. Se la personale del Museion non propone opere di rilievo rispetto a quanto già visto altrove, la mostra si relaziona perfettamente con il contesto che la ospita e ha il pregio di evidenziare le criticità più rilevanti della ricerca dell'artista.
Il primo confronto, il più forte, è con lo spazio. Il linguaggio architettonico dell'ultimo piano dell'edificio è annullato. I due grandi lati vetrati che si aprono sul fiume e sulla città sono inaccessibili. Il potere che vede e controlla e il piacere dell'essere guardati, sono negati. Da parte Stonewall III, la grande opera già in collezione permanente e perno della mostra, e dall'altra una falsa parete composta da pannelli per appendere gli attrezzi da lavoro, inchiodano lo spettatore al centro. Lì in mezzo si è costretti ad una sorta di corpo a corpo con gli oggetti. Una collezione di foto di mostre in fase di allestimento, immagini di interni di officine di muratori, i noti strumenti da lavoro ricoperti di pelle, delle citazioni sessiste e una motosega impiantata in un cubo, svelano i rapporti di sussidiarietà fra le questioni di genere, i simboli e l'inerzia culturale. Una mostra complessa per temi e sviluppo semantico e corredata da un catalogo di sole immagini ideato dall'artista, che purtroppo mal risponde ai desideri di contestualizzazione culturale stimolati dalla visita.


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Nel maggio del 1975 esce su Artforum un artico di Lawrence Alloway sulla pratica curatoriale. The Great Curatorial Dim-Out parla, come da titolo, dell'oscuramento della figura del curatore. Allowey parte dalle funzioni fondamentali del curatore d'arte: acquistare opere d'arte per il museo, preservare la collezione permanente, esporre le opere d'arte. Dal momento che le mostre permanenti e temporanee sono la forma attraverso la quale il museo dichiara la sua attività, il curatore è “l'interfaccia fra il museo come istituzione e il pubblico come consumatore”. Il curatore agisce dunque quale mediatore fra due istanze. Il suo è un incarico pubblico con relative responsabilità culturali. Quando abbiamo però a che fare con l'arte contemporanea era già evidente allora, circa 30 anni fa, che le cose siano più complesse. “I musei vanno visti in relazione al resto del mondo dell'arte come sistemi di informazione” in grado di decidere il successo di un artista e quindi del suo gallerista e del suo collezionista. “Succede che gli artisti, i venditori e i collezionisti condividano un gusto e un interesse comune. Il centro della loro attenzione è l'opera d'arte.” […] “Il curatore è chiamato ad unirsi al gruppo artista-venditore-collezionista e dunque a fare del museo un servizio per il mercato allargato, oppure è una figura indipendente fuori dalle grandi strategie?”
Le possibilità per il curatore di dissentire sono poche perché spesso i musei sono finanziati o governati nei consigli di amministrazione da potenti collezionisti, ma soprattutto perché la necessità di sentirsi integrato in un movimento generazionale e “il piacere di appartenere ad un gruppo, ad una elite, spesso supera la soddisfazione del non conformismo”.
Il curatore si trova così in una condizione infelice: “il servitore dell'artista e lo schiavo del mercato” mentre le mostre “tendono a ridurre la nostra ammirazione piuttosto che estendere la nostra conoscenza”.
Il pezzo di Alloway, oltre alla lucidità di un'analisi che le dinamiche degli ultimi trent'anni hanno confermato, è interessante nell'insieme in cui lo ripropongo, per la sintomatologia e la cura proposta.
“Un sintomo dell'indebolimento della funzione curatoriale è il declino del catalogo, una questione seria in quanto il catalogo dura più della mostra. Siccome i musei costituiscono, per certi versi, una forma protetta di pubblicazione, hanno l'opportunità di provvedere a degli studi non compromessi.” Alloway cita una lunga serie di cataloghi che, a sua opinione, sono esemplari: le monografie di William Seitz su Gorky, Tobey e Hofmann o quelle di William S. Rubin per Picasso, Mirò, Frank Stella. Poi rincara la dose: un catalogo “non è un vezzo e non è per gli amatori dell'estetica; funziona se contiene biografie verificabili, stilistiche, comparative o informazioni sociali in forma semplice da consultare”. Un esempio in negativo: “Quando Linda Shearer scrive della pitture di Marden (Brice Marden): che siano romantici, compassionevoli, sentimentali o austeri, essi trasmettono in una maniera empatica e toccante un vero senso di alienazione. Linda Shearer ha sbagliato canale. Questo è il tipo di pezzo che si scrive nelle recensioni per generare attenzione verso un nuovo artista, e non è richiesto quando ci troviamo di fronte a trenta singolari quadri degli ultimi dieci anni. L'analisi, che non è nemica della cordialità o della passione, è ciò che serve.”

In chiusura di pezzo, il critico e curatore americano propone anche un approfondimento della genesi del problema nonché una possibile cura:
“assegnando le funzioni 'educative' ad altri, i direttori e i consigli di amministrazione hanno separato i curatori da ciò che dovrebbe essere una motivazione centrale della loro condotta. In assenza di un ideale educativo condiviso da tutto il museo, i curatori gravitano in differenti fasi di dipendenza dal mercato, spostando in maniera determinante la distribuzione dell'arte”. […] “Ciò che serve è una qualche forma di associazione che sia il più possibile orientata all'auto-regolazione e alla protezione del mestiere. Uno standard etico incomincerebbe a proteggere i curatori da ritrosie involontarie o consce complicità con le pressioni imprenditoriali”.

Le parole di Alloway sono piuttosto pedanti nel tono, ma non credo che sia solo questo il motivo per cui si continua a sentire il bisogno di pubblicarle.


Intanto vi propongo l'ultimo e-flux che ho ricevuto qualche minuto prima di pubblicare sul blog questo pezzo.